coltivare l’incolto – crescere lungo i bordi
coltivare l’incolto – crescere lungo i bordi

coltivare l’incolto – crescere lungo i bordi

Nel corso del 2015-2016 Remida Reggio Emilia, da sempre sostenitore dell’idea di valorizzare gli scarti e l’imperfetto, ha scelto di enfatizzare il diritto all’imperfezione, considerando l’inutilità, la diversità e l’invisibilità come chiavi fondamentali per abbracciare la sostenibilità. Tale scelta è stata motivata anche dal coinvolgimento nel piano di rigenerazione urbana avviato dal Comune di Reggio Emilia nell’area nord della città nel 2016.

Le ex Reggiane sono state l’oggetto della ricerca e la base della collaborazione con Plantula. Le aree designate come incolte, lasciate alla proliferazione delle piante spontanee, analogamente agli scarti, veicolano un messaggio etico.

Superare i confini e camminare nell’incolto rappresenta un eccellente esercizio di ridefinizione per l’umanità, come sostiene l’agronomo e paesaggista Gilles Clément. Il pensiero ecologico di mira a ribaltare l’idea tradizionale di giardino, eliminando il concetto di recinto. Il dentro e il fuori, il prodotto e lo scarto, diventano un tutt’uno.

Il concetto di giardino planetario, come illustra Clément, è un giardino senza confini, sfuggente alle mappe perché abbraccia ogni forma di vita. Esso racchiude un sogno, un progetto di società possibile, portando con sé le dimensioni dell’utopia. Nell’ambito di questo giardino planetario, l’essere umano assume il ruolo di giardiniere.

Da queste riflessioni è emerso il progetto Coltivare l’incolto, un’iniziativa volta a celebrare le differenze e promuovere la cultura di una convivenza armoniosa.

I bordi sono tutto ciò che resta fuori dalla progettazione, i ritagli tra le costruzioni, le pieghe tra gli edifici abbandonati. Sono angoli inesplorati, nuove frontiere al di là di muri di cinta, contorni indefiniti e irraggiungibili. Sono luoghi svuotati dall’antropizzazione e rimasti vuoti di cose, spazi lasciati a loro stessi. I bordi, o meglio le ‘friche‘ come vengono definiti, non sono semplicemente non-luoghi, ma sono punti notevoli dove è in atto una trasformazione potente. Luoghi dove sta operando una rinaturazione spontanea fatta di semi e propaggini, radici che lentamente modificano un territorio ostile, digerendolo e rimettendolo in moto. Una metamorfosi stratificata degli spazi che disgregando e accumulando crea nuovo suolo e modifica profondamente il paesaggio. Un giardino in movimento nella cui creazione l’uomo è escluso.

Il nostro mondo, ampliandosi, consumando e mutando, produce una grande quantità di incolti. Ritagli che derivano da abbandoni di attività produttive, ma anche porzioni di proprietà pubbliche non più curate. Fondi agricoli non coltivati, coltivazioni abbandonate a loro stesse. Frammenti esclusi dalle riqualificazioni o resi inaccessibili da nuove costruzioni. Sui mappali rimangono delle forme poligonali vuote, come se fossero in stasi, ma in realtà sono in mutamento e nel tempo lo spazio libero tenderà a riempirsi di piante e animali.

Cercando il significato di ‘friche‘ sul dizionario francese-italiano si possono ottenere diverse traduzioni: area incolta, terreno abbandonato, deserto, pianeta desolato, giungla. Tutte concorrono a definire al meglio questo concetto: un’area più o meno estesa, non più coinvolta da attività umane, che si sta evolvendo in modo autonomo, sviluppando un suo ecosistema più o meno fragile. Volendole attribuire un accezione più evocativa si potrebbe affermare che è un luogo alieno al contesto in cui si trova, l’embrione di una futura selva.

Secondo una delle definizioni di paesaggio, questo è una porzione di territorio le cui caratteristiche derivano dall’attività o dall’interazione tra natura e uomo e la cui esistenza è inevitabilmente legata ad un osservatore. Esiste però un paesaggio celato che si sviluppa nel tempo e che muta con il passare delle stagioni. Questa realtà è ascrivibile al terzo paesaggio teorizzato e descritto dall’agronomo e pensatore francese Gilles Clément. Nel manifesto del terzo paesaggio Clément fa riferimento alla definizione del Terzo stato dell’Abate Siéyès, che diceva: “Cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che ruolo ha nel presente? Nessuno. Cosa vuole diventare ? Qualche cosa.” (dove Stato è sostituibile con Paesaggio). La sua natura di panorama nascosto, lo declassa a una condizione di scarto e di abbandono. La sua lentezza nel raggiungere un climax e una definitiva identità, o forse il suo inarrestabile mutamento di forme e colori, lo rende imputabile di incuria e quindi a rischio di eradicazione. Ma la sua presenza è ubiquitaria, la sua indipendenza dall’umanità è totale, la sua attitudine al mutamento è perpetua.

Quando in un luogo si interrompono le attività umane la natura lo rioccupa con passi alle volte lenti e alle volte rapidi. Le piante non possono essere escluse e a nulla serve il ricorso a barriere o erbicidi, prima o poi esse arriveranno e occuperanno il sito. I vegetali sembrano immobili, paralizzati dal loro apparato radicale che li vincola al punto in cui nascono. Sono invece esseri capaci di una motilità sorprendente: sia attiva mediante il prolungamento dei loro apparati che passiva inviando una moltitudine di semi a colonizzare l’ambiente circostante. Le propaggini che riescono ad allungare (radici, stoloni, rami) superano guaine protettive e sondano l’intorno. Altresì nel giro di alcune stagioni le piante erbacee sono capaci di diffondere la propria prole ampiamente su un terreno brullo. Inoltre hanno sviluppato delle abilità che gli permettono di utilizzare dei vettori per i loro spostamenti: vento, acqua, animali, uccelli e anche l’uomo. Dato poi che quest’ultimo si è dotato di mezzi di trasporto, le piante si sono adeguate a seguirlo e a diffondersi ancora più rapidamente. Il loro arrivo mette in moto una serie di trasformazioni dei substrati presenti, arricchendoli e rendendoli ancor più ospitali. Le prime ad arrivare sono le piante ruderali, specie frugali capaci di sopravvivere in pochi centimetri di terra e in assenza di acqua. Dopo di loro la strada della colonizzazione è aperta a organismi più complessi: arbusti, alberi e animali. Il tutto a costituire una biodiversità post-antropica in evoluzione differente dalle altre associazioni note, che da spazio alla presenza di specie aliene e autoctone.

Le ‘friche‘ si strutturano nel tempo mutando scarto in ricchezza e abbandono in rinascita. Questa esplosione di verde crea dei giardini inattesi, messi insieme formerebbero uno smisurato parco frammentato, un orto botanico diffuso. Le fioriture delle piante che popolano questi spazi accompagnano le nostre camminate stagionali, i nostri rapidi passaggi in macchina. Inconsciamente sono i colori che affiancano da sempre la nostra realtà, che riempiono i vuoti, che creano gli accenti. Imparare a notarle ci obbliga a scorgere gli spazi che la civiltà lascia dietro di sé, i luoghi che plasma, l’importanza di salvaguardare il paesaggio.

Si dovrebbe diventare botanici da marciapiede (da una definizione di Charles Baudelaire)